Lunedì, 14 Ottobre 2024

Breve guida al fronte caldo del Libano

Stella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattiva
 

Onorevole Centemero, lei è stato eletto in Lombardia. A Lecco e Bergamo, dove peraltro ha studiato. E’ il tesoriere della Lega di Salvini ma ha una proiezione internazionale, infatti è membro dell’Assemblea Parlamentare del Mediterraneo. E' molto legato per motivi famigliari alla diaspora armena e in particolare a quella libanese. Cominciamo da vicino per andare lontano, la comunità armena è storicamente presente in Italia anche se non molto numerosa. Vuole aprirci una finestra su questo piccolo mondo?

In Italia la presenza della diaspora Armena è di sicuro inferiore alle presenze che si possono registrare in Francia, negli Stati Uniti o in diversi stati dell’ex Impero Ottomano dove i primi scampati al Genocidio trovarono rifugio. Tuttavia è più significativa di quanto si possa credere: basta prendere l’elenco del telefono di una provincia a caso per trovare cognomi col finale in -ian, persone che magari non parlano nemmeno più armeno e si sono perfettamente integrate nel nostro paese ma che di sicuro sono memori delle proprie radici. Culturalmente troviamo diversi segni di questa amicizia che dura da secoli: San Gregorio Armeno a Napoli, l’isola di San Lazzaro a Venezia, la croce di pietra armena (Khachkar) vicino all’Università Cattolica a Milano ne sono solo alcuni simboli. Tra gli attori che spiccano nel modo della Cultura di sicuro troviamo Antonia Arslan, autrice del celeberrimo e giunto alle 41ma edizione “la Masseria delle Allodole” nonché vincitrice del premio Cultura Cattolica e nel mondo dell’impresa i Serapian, che fondarono il celebre marchio di pelletteria ora facente parte del gigante svizzero del Lusso Richemont. Poi c’è una presenza meno evidente ma molto consistente di investitori armeni in Italia, giganti della finanza a cui non piace apparire e che complessivamente mobilitano risorse superiori a quelle stanziate da alcuni fondi sovrani. 

Per chi volesse approfondire su Antonia Arslan ci consiglia la recente intervista su il Foglio di sabato 22 agosto a firma Giulio Meotti. Ma seguendo il filo della diaspora armena andiamo in Libano. Ci risulta che lei si sia sposato a Beirut, quindi immaginiamo sia molto legato a questa città. Oltre alla pluridecennale presenza militare italiane in Libano, cosa lega l’Italia contemporanea al Libano? Cosa lega in particolare la città di Milano a quella di Beirut?

L’Italia è il primo partner commerciale del Libano, accoglie una consistente presenza di diaspora libanese nonché è meta di viaggi di piacere, d’affari e religiosi da parte di tanti libanesi. Libano e Italia sono legati da una simpatia molto diffusa tra tutta la popolazione libanese, di qualunque classe sociale o appartenenza religiosa (il libano ne conta almeno 14) e il nostro contingente nel Sud del Paese non è visto come forza di occupazione ma come un valido aiuto per quanto riguarda l’assistenza medica o altri aspetti cui le fasce più deboli non hanno accesso. Si contano diverse collaborazioni tra le Università italiane e quelle libanesi e tanti libanesi scelgono il politecnico, la Bocconi, IED, Naba o altri Atenei milanesi per i propri studi. I libanesi, come gli armeni, si sono integrati perfettamente nella società italiana; non si notano e nemmeno si vogliono far notare ma per esempio durante le proteste contro la classe politica libanese si tennero due manifestazioni composte e ben organizzate davanti al Consolato Generale di via Larga. Ogni volta che prendo un volo per Beirut incontro diversi libanesi che vivono a Milano o sul lago di Como o in provincia di Varese o a Pavia e che si sono trasferiti in Lombardia durante la Guerra Civile o in altri periodi e per i più svariati motivi. 

Uno dei luoghi comuni della recente memoria è quella di un Libano visto come Svizzera d’oriente, spazzata via dalla guerra civile. E’ uno stereotipo oppure ha un fondamento? E cosa ha rotto l’equilibrio post coloniale che ha sprofondato il Libano nell’auto distruzione?

Lo snaturamento dell’impero Ottomano da entità multi culturale e multi religiosa che lo ha portato al proprio crepuscolo con il sorgere del nazionalismo turco ha dato vita non solo al genocidio delle minoranze cristiane presenti nel territorio dello stesso ma anche allo “spacchettamento” in ottica puramente coloniale dell’impero sulla base del Sykes Picot agreement. Un paio d’anni fa, in una piccola libreria di Kensington, ho trovato la biografia di Mark Sykes (“The man who created the Middle East” di Christopher Simon Sykes ed edito da William Collins) scritta dal nipote Christopher attraverso scambi espistolari e diari del nonno: dalla stessa si evince come interi popoli furono dimenticati nell’accordo (tra cui ad esempio Curdi e Armeni) e che lo stesso venne applicato diversamente da come pianificato dai redattori a causa dell’assenza dello Zar dal tavolo (il fronte interno che gli costò il potere era molto più caldo) e della morte di Mark Sykes che studiò il terreno per decenni per conto della Corona. Gli Stati vennero creati in maniera quasi artificiale e il Libano diventò purtroppo terreno di scontro tramite deleghe che venivano conferite dalle potenze regionali a l’una o l’altra fazione. Il Libano, a partire dallo spacchettamento, è il cuscinetto tra Siria e Israele, gli Assad per esempio hanno fino a poco tempo fa lanciato i propri attacchi verso lo stato ebraico dal territorio libanese, un po’ come “lanciare il sasso e ritrarre la mano”. Tutti questi interessi eterodiretti, acuiti dal grande afflusso di profughi palestinesi, portarono alla guerra civile. Per essere la Svizzera del Medio Oriente è mancato un aspetto fondamentale. La neutralità.

Non è facile riassumere brevemente le vicende politiche e settarie libanesi. Due fatti recenti e i loro collegamenti, la sentenza sull’attentato al presidente Hariri e l’esplosione devastante nel porto di Beirut. Cosa hanno in comune e cosa no?

In comune hanno che uniscono la maggioranza del Paese: con l’omicidio di Hariri i libanesi scesero in piazza per chiedere che l’esercito Siriano cessasse di occupare il territorio libanese: le truppe di Assad dovettero ritirarsi lasciando però il testimone a Hezbollah. L’esplosione al porto sta unendo la società civile che si sta rimboccando le maniche in una solidarietà e calore incredibili, che non ho mai visto altrove. Mi piange il cuore a vedere Beirut dilaniata e mi piange il cuore a vedere che un popolo così moderno, così istruito e così vivo e ottimista non possa liberarsi da una classe politica per lo più rappresentata dai vecchi signori della guerra organizzati quasi come una cupola di Corsa Nostra.

Un vaso di coccio citando Manzoni, tra vasi di ferro. Turchia, Siria, Iran, Egitto, Arabia e soprattutto Israele. Quale è secondo lei il quadro nel vicino Oriente?

Gli schieramenti sono chiari: la Turchia di Erdogan sfrutta la debolezza dell’Europa per tentare di raggiungere il predominio del Mediterraneo violando, impune, il diritto internazionale. I paesi Arabi, eccetto il Qatar, considerano la Turchia e l’Iran i due principali pericoli nell’equilibrio del Mediterraneo e oltre: l’accordo tra Emirati Arabi e Israele dimostra ad esempio che la causa palestinese è considerata meno importante rispetto a fare fronte comune nei confronti dell’Iran. Come Italia siamo vergognosamente assenti se non prostrati ad Ankara e alleati. E’ ridicolo che dobbiamo contare sull’intelligence turca per liberare una cittadina italiana in Somalia o per avere una presenza in Libia. Bene sta facendo, e lo dico a malincuore, il presidente francese Macron a supportare non solo il Libano verso un processo democratico ma anche la Grecia a livello militare. 

Ecco: Macron si è precipitato a Beirut dopo la tragedia che ha devastato l’intera area portuale della città, offrendo solidarietà ai cittadini ma non al governo libanese. Invece l’Italia cosa fa in Libano?

Macron sicuramente ha una sua agenda per il Libano, sicuramente dettata da interessi strategici francesi ed è certo che non può invischiarsi con un governo che sancisce la propria completa inadeguatezza con quanto avvenuto al Porto di Beirut, il cuore della città e un punto cruciale per un deficit country confinante con stati con cui non ha rapporti diplomatici. Per quanto ci riguarda il ministro della difesa ci si è recato poco fa, la nostra ambasciata è molto presente e stipula accordi di collaborazione in diversi settori, sto personalmente lavorando ad alcuni progetti sotto l’egida dell’Assemblea parlamentare del mediterraneo. L’Italia sta effettivamente facendo tanto a livello di singole istituzioni o organizzazioni ma manca il regista, il quid che dovrebbe essere portato da una visione da parte del nostro primo ministro o ministro degli esteri su quella che è la chiave di volta che finora, anche grazie alla propria banca centrale, ha tenuto in piedi l’impalcatura del Levante in mezzo a tanti chiari di luna. Obiettivamente né Conte, né Di Maio hanno la preparazione e gli strumenti intellettuali per fare pianificazione geopolitica e il nostro governo rischia di rendere vani gli sforzi di tante nostre donne e uomini in divisa che da anni sono la spina dorsale della Missione Unifil di Naqura.

La comunità armena è una componente importante della popolazione della città di Beirut e la Turchia, come dice anche lei, un vicino ingombrante. Anche per gli armeni di Armenia, con un altro fronte caldo nel Nagorno-Karabakh. Cosa succede dall’altra parte dell’Anatolia nel Caucaso?

Beirut è una delle principali città della diaspora degli armeni occidentali, quelli che vivevano nell’Impero Ottomano e che nella spartizione di quanto rimaneva dell’Impero videro svanire tutte le promesse e tutti i diritti. Gli Armeni in Libano sono una minoranza consistente numericamente (più di centomila in uno Stato di poco più di quattro milioni di abitanti) e influente anche a livello economico, sociale e politico. Convivono pacificamente con i cittadini di ogni altra appartenenza religiosa da cui sono considerati un asset per il Paese. Non più di un paio di mesi fa venne organizzata una manifestazione anti armena dove venivano brandite bandiere turche in un quartiere periferico di Beirut.  Nel corso della manifestazione furono scanditi slogan negazionisti del genocidio. E’ di qualche giorno fa la notizia, diramata da fonti dell’esercito libanese, che siano state illegalmente importate tramite la Siria armi provenienti dalla Turchia. E’ evidente che vi sia una regia probabilmente turca che tenta di destabilizzare il Paese dei Cedri, fomentando anche i più bassi istinti del fanatismo religioso.

Il fronte del Caucaso poteva essere considerato un caso a parte fino a poco tempo fa. Ora, soprattutto con la rivoluzione di Velluto che ha portato la Repubblica di Armenia a promuovere importanti riforme nella direzione della trasparenza e della democrazia tanto da far dichiarare durante un talk show della BBC al proprio Primo Ministro, Nikol Pashinyan, che per il Nagorno Karabakh va trovata una soluzione comune e accettabile per i popoli di Nagorno Karabakh, per Armenia e Azerbaigian non ci sono più alibi per irrigidimenti o minacce di guerra. Quel fazzoletto di terra incastonato tra le montagne del Caucaso può davvero essere un esempio di pace e di convivenza dopo decenni di conflitti impostati soprattutto dai “divide et impera” di Stalin e simili, ivi incluso Erdogan.

Alleggeriamo: un libro, un film e una canzone per chi è affascinato dall’oriente così esotico che ci ha raccontato.

Trittico femminile: libro “La bastarda di Istanbul” di Elif Shafak; film “E ora dove andiamo” del 2011 diretto dalla regista libanese Nadine Labaki, che ben descrive in modo leggero e ironico l’equilibrio trai gruppi religiosi in Libano; canzone “Panique bel parlement” di Michelle e Noel Keserwany.

Grazie per il suo tempo e buon lavoro!